SISET ONLINE n° 02/2023

SISET Online

La prevenzione secondaria dello stroke ischemico

Domenico Prisco e Maria Canfora

(Università degli Studi di Firenze, Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica, AOU Careggi)

Il tasso di recidiva precoce dopo uno stroke ischemico o un attacco ischemico transitorio (TIA) rimane elevato, nonostante i notevoli progressi nell’ambito della prevenzione secondaria. Il rischio di stroke entro 90 giorni dopo un primo evento ischemico è in media del 5%, ma questo può variare da più del 10 % a meno dell’1% in base al meccanismo eziologico sottostante [1].
Pertanto risulta necessario adottare precocemente una strategia ottimale di prevenzione secondaria che bilanci il rapporto tra il rischio e il beneficio terapeutico.
Il pilastro della prevenzione secondaria precoce è rappresentato dall’acido acetilsalicilico (ASA), al dosaggio di 160-300 mg/die [1,2]. Tale terapia è l’unica che ha dimostrato di essere efficace se intrapresa precocemente entro le 24-48 ore dall’inizio dei sintomi neurologici, indipendentemente dall’eziologia dello stroke, dopo aver escluso un infarcimento emorragico al neuroimaging.
Numerosi trial sono stati condotti nel corso degli anni sulla terapia antiaggregante sia a lungo che a breve termine, al fine di identificare una terapia sicura ed efficace nella prevenzione delle recidive di stroke dopo un primo evento non cardioembolico. Nella terapia antiaggregante a lungo termine i trial CHARISMA, MATCH, PRoFESS, ESPRIT, hanno indagato varie strategie di duplice antiaggregazione (dual antiplatelet therapy, DAPT) rispetto all’uso della singola antiaggregazione (single antiplatelet therapy, SAPT). In tutti i trial sopracitati non sono state trovate differenze sostanziali tra le diverse opzioni terapeutiche nell’endpoint combinato di recidive di stroke, eventi ischemici cardiaci e morte vascolare. Tutto ciò a fronte di un incremento del rischio emorragico della DAPT rispetto alla SAPT, soprattutto quando essa prevedeva l’uso del solo clopidogrel (MATCH e PRoFESS) [3].
Quindi le Linee Guida (LG) americane ed europee raccomandano l’utilizzo della SAPT nei pazienti con stroke ischemico o TIA di origine non cardioembolica nella prevenzione secondaria dello stroke ischemico a lungo termine [1,4].
Risultati diversi sono emersi invece dagli studi che indagano l’utilizzo della DAPT nel breve termine. In particolare, nei pazienti con recente minor stroke non cardioembolico caratterizzato da NIHSS (National Institute of Health Stroke Scale) ≤3 e nei pazienti con TIA ad alto rischio definito da un ABCD2 Score ≥4, le LG raccomandano di intraprendere precocemente la DAPT con ASA e clopidogrel e di mantenerla per 21 giorni, continuando al termine di tale periodo la SAPT con aspirina [1].
Tali raccomandazioni derivano dai risultati di diversi studi pubblicati negli scorsi anni, sulla DAPT nel breve termine. Sia il CHANCE che il POINT, trial randomizzati in doppio cieco, hanno confrontato la DAPT con ASA e clopidogrel rispetto alla SAPT con la sola aspirina, intrapresa dopo l’esordio di un minor stroke o TIA ad alto rischio. I due trial differivano per il timing d’inizio precoce della terapia, rispettivamente <24 e <12 ore dall’esordio dei sintomi, per la durata della DAPT, rispettivamente eseguita per 21 e 90 giorni e per i diversi dosaggi di carico del clopidogrel, rispettivamente 300 mg e 600 mg [5,6]. Entrambi i trial hanno dimostrato una riduzione delle recidive di stroke ischemico a 90 giorni. Tuttavia, nel POINT vi era un incremento dei sanguinamenti maggiori rispetto al CHANCE, pur in assenza di un incremento di emorragia intracranica (ICH), da correlare verosimilmente alla durata più lunga della DAPT. Infatti, ulteriori analisi dello studio POINT hanno rivelato che il beneficio clinico netto della DAPT si otteneva in particolare nei primi 21 giorni [7].
Tale dato trova conferma nei risultati di una metanalisi dei due trial che ha dimostrato come il massimo beneficio si ottenga nei primi 21 giorni, minimizzando il rischio emorragico se si interrompe la DAPT dopo 3 settimane, senza protrarla sino a 90 giorni [8].
Altro studio sulla doppia antiaggregazione a breve termine è il trial THALES, nel quale è stato confrontato l’uso di ticagrelor (90 mg bid) associato ad ASA rispetto ad ASA in monoterapia, in pazienti con stroke caratterizzato da un NIHSS ≤5, oppure con TIA ad alto rischio definito da un ABCD2 score ≥6 o in presenza di una stenosi sintomatica intra/extracranica >50%. Dai risultati di questo trial è emersa una riduzione significativa del rischio di recidiva di stroke ischemico o morte a 30 giorni con DAPT, a fronte di un incremento consistente di sanguinamento grave e in particolare di emorragia cerebrale, diversamente dai 2 trial precedenti [9]. Una sottoanalisi di questo studio ha tuttavia dimostrato una riduzione del rischio di stroke o morte a 30 giorni nei pazienti con stenosi intracranica >30% omolaterale rispetto al territorio ischemico, che assumevano la DAPT con ticagrelor e ASA rispetto alla sola ASA, in assenza di un incremento di eventi emorragici [10].
Alla luce di questi studi le LG americane raccomandano, seppur con un livello di evidenza basso (2b), l’uso di DAPT con ticagrelor e ASA per 30 giorni nei pazienti con recente stroke minore/moderato con NIHSS ≤5 o TIA ad alto rischio e concomitante stenosi intracranica omolaterale >30% [1]. In tutti e 3 gli studi sopracitati erano esclusi pazienti sottoposti a trombolisi o trattamento endovascolare o in terapia con anticoagulanti.
Nei pazienti con stroke o TIA non cardioembolico determinato da una stenosi intracranica (ICAS) del 50-99%, lo standard di cura è rappresentato dall’ASA (325 mg/die). Tuttavia, nei pazienti con stenosi intracranica critica (70-99%) è ragionevole l’aggiunta di clopidogrel all’ASA per un periodo di 90 giorni [1,11]. Tale raccomandazione è rafforzata dai risultati di analisi post-hoc di trial clinici [12,13]; in particolare, i pazienti dello studio SAMMPRIS con ICAS appartenenti al braccio in terapia medica con DAPT per 90 giorni, avevano un tasso di recidiva di stroke a un anno inferiore rispetto ai controlli in terapia con la sola aspirina [14].

Per quanto concerne, invece, pazienti con stroke ischemico o TIA di origine cardioembolica con nuova diagnosi di Fibrillazione Atriale (FA), le LG raccomandano di intraprendere terapia anticoagulante con uno dei 4 DOAC, da preferirsi agli antagonisti della vitamina K (AVK), per la loro efficacia non inferiore ma con un profilo di sicurezza migliore. Gli AVK rimangono la prima scelta nei pazienti con FA e stenosi mitralica moderato-severa e/o protesi valvolari meccaniche. Va comunque ricordato che dai grandi trial di confronto tra warfarin e DOAC (RE-LY-AF, ROCKET–AF, ARISTOTLE, ENGAGE AF-TIMI) erano stati esclusi pazienti con stroke ischemico acuto insorto nei 7-14 giorni precedenti all’arruolamento.
Il timing ottimale per intraprendere la terapia con DOAC dopo uno stroke cardioembolico nei pazienti con nuova diagnosi di FA rimane pertanto ancora un tema dibattuto, anche se alcune evidenze osservazionali hanno suggerito che esso si collochi tra i 4 e i 14 giorni dopo l’evento ischemico [15].
Comunque le raccomandazioni sono basate su consensus di esperti, e non sono supportate da dati robusti derivanti da trial clinici, poiché in letteratura sono scarse le evidenze di alta qualità. In particolare le LG ESO (European Stroke Organisation) suggeriscono di iniziare a somministrare ASA nelle prime 48 ore dopo uno stroke cardioembolico e poi, in base all’estensione dell’area ischemica e al deficit neurologico misurato mediante NIHSS, introdurre la terapia anticoagulante: dopo 1-3 giorni nei TIA, dopo 3-4 giorni negli stroke minori, dopo 7 giorni negli stroke moderati e dopo 14 giorni negli stroke gravi con lesioni cerebrali di maggiori dimensioni [16].

Le ultime raccomandazioni EHRA-ESC hanno suggerito l’inizio dell’anticoagulazione secondo una rivisitazione della “regola dell’ 1-3-6-12 giorni": dopo un giorno per un TIA, dopo 3 giorni o più per uno stroke lieve, dopo 6-8 giorni per uno stroke moderato e dopo 12-14 giorni per uno stroke severo, rispettivamente [17]. Questo suggerimento è basato sull’osservazione che il rischio di trasformazione emorragica è legato alle dimensioni dell’infarto cerebrale. Quindi un approccio basato sulla stratificazione del rischio guidata dal neuroimaging potrebbe aiutare a minimizzare i rischi di emorragia intracranica.

Una recente analisi dei dati aggregati di registri prospettici ha evidenziato come l’inizio precoce della terapia con DOAC tra il primo ed il quarto giorno dall’evento, in base alla gravità dello stroke, possa determinare una riduzione delle recidive in assenza di un incremento del rischio emorragico [18].
Lo studio ELAN, trial controllato randomizzato (RCT) recentemente pubblicato, ha valutato l’efficacia e la sicurezza di una strategia più precoce di introduzione del DOAC nello stroke, rispetto a quella più tardiva raccomandata dalle LG utilizzando i dati di neuroimaging [19]. In questo studio sono stati randomizzati pazienti ad assunzione precoce oppure tardiva di DOAC dopo uno stroke ischemico acuto ed FA di nuova diagnosi. Il trattamento precoce prevedeva l’introduzione del DOAC a 48 ore dopo uno stroke minore o moderato e a 6-7 giorni dopo uno stroke grave; contestualmente, il trattamento tardivo prevedeva l’inizio del DOAC entro 3-4 giorni dopo un TIA o stroke minore, entro 6-7 giorni dopo uno stroke moderato e tra i 12 e i 14 giorni dopo uno stroke di grave entità. La gravità dello stroke veniva stabilita in base alle dimensioni dell’infarto cerebrale al neuroimaging e non in relazione al NIHSS. L’endpoint primario era un composito di recidive di stroke, embolia sistemica, sanguinamento extracranico maggiore, emorragia intracranica sintomatica o morte vascolare entro 30 giorni dalla randomizzazione. Sebbene lo studio non abbia testato ipotesi di superiorità e/o di non inferiorità, dai risultati emersi, la strategia di inizio precoce si è dimostrata tendenzialmente più vantaggiosa e sicura in termine di riduzione di eventi ischemici e di insorgenza di trasformazione emorragica, fornendo per la prima volta evidenze favorevoli per un inizio precoce della terapia anticoagulante.
Lo studio TIMING, il primo RCT che ha indagato l’efficacia e la sicurezza dell’inizio precoce (entro 4 giorni) rispetto a quello tardivo (tra 5-10 giorni) dei DOAC in pazienti con stroke ischemico acuto e FA, aveva dimostrato risultati simili sull’endpoint composito di nuovi stroke ischemici, ICH sintomatiche e tutte le cause di morte. Nessun paziente aveva avuto ICH sintomatica, mentre i tassi di stroke ischemico e morte erano numericamente inferiori nei pazienti randomizzati all'inizio precoce del DOAC pur in assenza di una significatività statistica [20]. Tuttavia questo trial è stato interrotto prematuramente a causa del lento reclutamento dei pazienti.
Altri studi, tuttora in corso, esaminano l’anticoagulazione precoce rispetto a quella tardiva nei pazienti con stroke ischemico e recente FA, tra cui l’OPTIMAS (NCT03759938) e lo START (NCT03021928), di cui si attendono i risultati nei prossimi mesi.

Nessuna novità terapeutica, invece, per quanto riguarda il cosiddetto stroke embolico di origine indeterminata (Embolic Stroke of Undetermined Source, ESUS), che rappresenta circa il 20% di tutti gli stroke ischemici [21].
In passato, era stato ipotizzato che gli anticoagulanti potessero essere più efficaci dell’ASA nella prevenzione secondaria degli ESUS. Gli studi NAVIGATE-ESUS [22] e RESPECT-ESUS [23], avevano randomizzato i pazienti ad utilizzare rispettivamente rivaroxaban o dabigatran rispetto ad ASA. In entrambi gli studi non è stata riscontrata una riduzione del rischio di stroke nei pazienti trattati con DOAC. Negli ultimi anni si è definita l’idea della correlazione tra ESUS e cardiomiopatia atriale intesa in un concetto più ampio rispetto alla sola FA. Tale concetto è alla base dello studio ARCADIA (NCT03192215), i cui risultati sono stati presentati alla nona edizione ESOC 2023 (European Stroke Organisation Conference). I risultati di questo trial, interrotto precocemente, suggeriscono che l’anticoagulazione con apixaban non offre alcun beneficio rispetto ad ASA nei pazienti con ESUS e cardiomiopatia atriale senza FA conclamata, confermando ancora una volta dati in linea con i due studi precedentemente citati. Pertanto le LG non raccomandano l’utilizzo di DOAC per la prevenzione secondaria dopo un ESUS [1,4] e la terapia antipiastrinica rimane quindi al momento la migliore strategia terapeutica.

Se da un lato molti progressi sono stati compiuti nella ricerca scientifica nell’ambito della terapia anticoagulante, in particolare dall’avvento dei DOAC, il rischio emorragico con tali farmaci rimane non trascurabile, soprattutto in alcuni setting di pazienti, come quelli con insufficienza epatica o renale, con neoplasie attive, con comorbidità, con storia di sanguinamento o che richiedano un trattamento antipiastrinico concomitante. Da qui è aumentato l’interesse negli ultimissimi anni per lo sviluppo di nuovi farmaci. Il razionale dello sviluppo di questi nuovi farmaci è quello di un’inibizione selettiva della via di contatto della coagulazione a livello dei FXI e FXII, delineando un approccio nuovo di anticoagulazione, mirato al risparmio della emostasi fisiologica, con inibizione prevalente della trombogenesi, dissociando per la prima volta i due meccanismi [24,25,26].
Diversi trial stanno valutando l’efficacia e la sicurezza dei farmaci anti FXI nella prevenzione dello stroke ischemico.
Per quanto concerne la prevenzione dello stroke cardioembolico in pazienti con FA, è stato da poco completato un trial randomizzato di fase II con una piccola molecola, il PACIFIC-AF [27]. In questo studio i pazienti sono stati randomizzati ad asundexian (20-50 mg die per os) o apixaban (5 mg bid per os, con riduzione del dosaggio ove necessario). Dopo 12 settimane asundexian è risultato superiore ad apixaban nell’outcome primario di sicurezza (sanguinamento maggiore o non maggiore clinicamente rilevante). A seguito di tali risultati incoraggianti, era iniziato lo studio di fase III OCEANIC-AF (NCT05643573), volto a valutare l’efficacia e la sicurezza in termini di prevenzione dello stroke ischemico, dell’embolia sistemica e il sanguinamento maggiore in pazienti adulti con FA, randomizzati ad asundexian o ad apixaban. Tuttavia, il 19 novembre 2023, dopo soli 9 mesi dall’inizio dello studio, l’azienda produttrice ha annunciato l'interruzione anticipata dell’OCEANIC-AF. Tale decisione si è basata sulla raccomandazione dell’Independent Data Monitoring Committee (IDMC) dello studio, dopo che i risultati della sorveglianza in corso hanno mostrato un’efficacia minore di asundexian rispetto ad apixaban. I dati verranno ulteriormente analizzati, al fine di comprenderne l’esito, e successivamente pubblicati [28].

Invece, per quanto riguarda la prevenzione secondaria nello stroke non cardioembolico, sono stati conclusi due trial di fase II: il primo, PACIFIC-Stroke con asundexian [29], il secondo AXIOMATIC-SSP con milvexian [30], entrambi studiati contro placebo on top alla singola o doppia antiaggregazione.
Entrambi questi trial hanno mostrato risultati promettenti degli inibitori del FXI nei pazienti con ictus ischemico o TIA, evidenziando una potenziale riduzione delle recidive ischemiche cerebrali sintomatiche a fronte di un rischio emorragico non aumentato, in particolare nei pazienti con aterosclerosi. Sulla base di questi risultati, sono in corso i trial di fase III, rispettivamente OCEANIC-STROKE (NCT05686070) per asundexian e LIBREXIA-STROKE (NCT05702034) per milvexian.

In conclusione, molte sfide sono in corso per il clinico nell’ambito della prevenzione secondaria dello stroke ischemico.
Tra quelle di maggior interesse si annovera la ricerca del timing ottimale in cui intraprendere la terapia anticoagulante dopo uno stroke ischemico cardioembolico, dove un inizio precoce sembra essere ragionevolmente sicuro, ma soprattutto lo sviluppo di un nuovo concetto di anticoagulazione con gli inibitori del FXI, potenzialmente più sicuri, al fine di superare i limiti legati all’uso dei DOAC, aprendo la strada al loro uso come trattamenti di prevenzione secondaria in contesti terapeutici complessi.
Saranno necessari i risultati degli studi in corso di fase III per chiarire alcuni aspetti sostanziali sul ruolo degli inibitori del fattore XI nella pratica clinica, definendo il rapporto tra efficacia e sicurezza in specifici scenari clinici.

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